Web Gossip

Nei post precedenti abbiamo parlato di anonimato, censura e della potenza mediatica di Facebook. Casca a pennello, o quasi, l’ambaradan del caso Vasco Rossi e Nonciclopedia. Bene, mi trovo d’accordo con quanto scrivono Licia e Valberici, per cui dopo una lunga discussione su Facebook non torno sull’argomento. Volevo però far notare un altro piccolo e delizioso fatto. Un particolare che mi ricorda un po’ il telefono senza fili, in versione prettamente 2.0.

Trattasi del gossip, della chiacchiera e dell’effetto domino. Ok, a prescindere dall’opinione sull’atteggiamento eccessivo di Vasco Rossi e sul confine piuttosto labile tra satira e calunnia, intravedo una simpatica operazione promozionale. Perché Nonciclopedia poteva semplicemente rimuovere o editare la pagina relativa a Vasco Rossi, ma ha scelto un’altra strada, quella di chiudere il proprio sito a tempo indeterminato. Così si leggeva nel primo comunicato, che poi ha fatto il giro della rete grazie ai follower di Twitter e Facebook. Un polverone tale che ha scomodato Repubblica a scrivere in merito.

Si legge:

Nonciclopedia, la versione satirica della più celebre Wikipedia, chiude i battenti per “colpa” di Vasco Rossi. Il rocker di Zocca ha presentato una denuncia per diffamazione contro il sito, portando gli amministratori del portale a oscurare l’intero archivio di dodicimila voci in attesa che i giudici si esprimano sulla vicenda.

Ecco, il che, a primo acchito – quello del 90% dei lettori hurry up on the web -, fa pensare a una serie di eventi: denuncia, polizia postale, sito sequestrato. Di conseguenza grida allo scandalo, libertà sempre o comunque di espressione e via dicendo.Tutto, ovviamente, preso con le pinze.

Poi si legge un aggiornamento sul sito di Nonciclopedia, arrivato però un po’ più tardi, quando la miccia era già accesa:

Il sito chiude per protesta, non per costrizione

Cosa spiegata anche dall’avvocato di Vasco Rossi.

Appunto. Ora, forse sarà un pensiero maligno, ma la decisione di chiudere un sito per la denuncia dell’avvocato di Vasco mi pare un rimedio un po’ estremo.

Se gli amministratori hanno ritenuto la loro satira non condannabile per calunnia, potevano chiudere la pagina “Fiasco Rossi”, far partire l’appello e lasciare il sito aperto. Ma avrebbe fatto meno rumore. Così come avrebbe fatto poco rumore se la denuncia non fosse pervenuta da Vasco Rossi ma da un PincoPallo molto meno famoso, seppur nonciclopedico. Insomma, di certo non ci sarebbe stato così tanto da ciarlare, né meritarsi la pole position su Repubblica o sul TG 5.

Insomma, un bel web gossip che porterà tanti tanti accessi e fama a Nonciclopedia, con petizione annessa. Non so perché, ma ho una vaga impressione che Nonciclopedia riaprirà presto i battenti, stavolta con molti, molti fedeli utenti. È solo la mia idea?

Poi, con calma, torneremo a parlare di web 2.0.

Censura, effetto spider, satira, anonimato, frustrazione, libertà di espressione e anche strumento per far caciara, scacciare la noia, emancipare la propria posizione. Il che, a volte, si traduce anche con: dopo colazione apriamo il web e iniziamo a far casino. Così mi porto accessi (facebook o blog o altro), perché servono. Alla mia carriera. Al mio ego.

Più o meno si traduce con la parola: Dementia 2.0.

Ma ne riparleremo. Con calma.

La privacy e l’anonimo 2.0

Il web sta cambiando, è sotto gli occhi di tutti. Nel tramonto del web 2.0, i  forum sono per lo più deserti, pullano i blog (dove vince WordPress ma sale di gradimento Tumblr e affonda inesorabilmente blogspot del signor Google, che corre ai ripari nel rimpasto confuso di Google+). Ma, naturalmente, stravincono i Social Newtork ormai consolidati.

Nel grande mare magnum, a livello globale, dopo la lenta agonia di MySpace, risulta vincitore Facebook, seguito subito dal famoso Twitter (poco, in Italia, in verità).

Spesso, sui quotidiani online e sui blog, si dibatte il tema privacy e diritto del consumatore. Be’, ve lo dico subito, le mie posizioni sono abbastanza delineate.

In primis, occorre chiedere la correzione del dizionario dei sinonimi e contrari. Il contrario di privacy è Facebook. Nasce proprio per questo: mettersi in vetrina, farsi conoscere, far leva sul virtuale per emanciparsi. Oltre che, ovviamente, perdere tempo, fare conoscenze, cazzeggiare e riallacciare nuovi e vecchi rapporti. Il tutto, per un servizio privato che non chiede canoni di abbonamento nella perfetta politica già rodata del meccanismo pubblicitario.

E i nostri dati sensibili? Ciao. Facebook vive di questo, campa sui nostri dati. Non è allarmismo, è un fatto chiaro. Basta cercare su internet e leggere in merito fiumi di articoli.

Facebook vive grazie alla presenza nel virtuale di persone reali. Così si spiega, sociologicamente, il suo successo, a prescindere da una user experience più o meno buona, che i signori di Palo Alto cambiano un mese sì e l’altro pure. Un successo che si sta replicando nel mondo mobile, tramite gli smartphone come Android o Apple. Quasi una carta di identità virtuale, fra non molto associata a qualche sistema di mobile payment, come del resto fa da tempo Apple con il suo iTunes.

In quest’ottica, la richiesta di un numero di telefono (come chiede ultimamente Google) è il minore dei problemi. Il che, naturalmente, fa capire bene perché Facebook abbia la regola dei nomi e cognomi veri, non nickname. Interessi di una strategia lampante. Una strategia che non approvo in questi termini, benché sia favorevole a una responsabilizzazione dell’anonimato su internet, fin troppo vago, confuso e spesso causa di spiacevoli situazioni di stalking e ingiurie.

Rifiuto quindi l’anonimato in rete? In molti casi sì. E per le segnalazioni anonime di reato, come facciamo? Facciamo, esistono sempre i workaround. Perché, queste segnalazioni non potrebbero rimanere anonime? Si sta parlando di un servizio pubblico di estrema importanza, non di un social network. Sottile e chiara differenze.

Ma non trovo neppure corretto che una persona psicolabile possa divertirsi in rete, verso chi magari mette la faccia e il proprio nome, e uscirne quasi sempre impunita. La strada della polizia postale, identificazione dell’IP ecc… non è affatto banale. E non è alla portata di tutti, figuriamoci dei minori.

Come sempre la scelta giusta è la via di mezzo, quella più difficile da perseguire. E anche vero però che Facebook, Twitter & CO sono servizi privati, non statali. Twitter ci mette mezzo secondo a cambiarti il nickname se lo pretende un personaggio pubblico.

Quindi? Nel momento in cui alcuni regole dettate non andranno a genio alla massa, la massa risponderà con un rifiuto. E, a quel punto, anche i colossi rivedranno alcune strategie.

Ma resta comunque un mondo virtuale. Dove la privacy è sempre più pubblica e dove, si spera, l’identità delle persone non sia associabile a un nick con il solo fine di essere e fare ciò che nella realtà non sarebbe possibile. Questo, a mio avviso, è ledere i diritti di chi utilizza la rete. Questo il vero danno. Perché, sia inteso, anche nel virtuale esistono dei limiti morali da rispettare. Fatto ultimamente sempre più a rischio.

Poi, come sempre, si può capire che forse è l’ora di uscire e stringere qualche mano vera.

Non solo il mouse.

 

 

Anonimo e pseudonimo

Ieri sera, dopo cena, stavo parlando su skype con una mia amica proprio di un tema abbastanza caldo in questi giorni: internet, web 2.0, social ma soprattutto anonimato e pseudonimo.

Ok, non facciamo finta di cadere dalle nuvole. E’ sempre stato così, fin dalla nascita di internet. Il fenomeno si è solo accentuato – o è diventato più evidente – con la nascita del web 2.0 e il propagarsi dei social network: dai blog a facebook, passando per i forum che ormai sono una realtà in via di estinzione.

Poi, proprio in questi giorni, stavo ragionando su quanti scrittori abbiano una doppia identità su internet, ma anche editorialmente parlando con il famoso pseudonimo. Tanti, troppi a mio avviso. I motivi sono i più disparati. C’è chi è stato costretto dall’editore, perché lo pseudonimo inglese avrebbe venduto di più, c’è chi si è sdoppiato per essere credibile cambiando genere di romanzo, magari passando dall’horror a quello per bambini. Perché, naturalmente, non si vuole destabilizzare il “parco lettori”, affezionato a una particolare linea editoriale, ma si vogliono tentare anche altre vie (per motivi meramente economici oppure per un desiderio a quanto pare inconfessabile). Una politica intelligente, a livello marketing, non c’è che dire. Mi chiedo solo perché io non ci abbia pensato prima. Ma il motivo forse è più semplice di quanto si voglia credere: non ho avuto problemi a pubblicare il mio primo libro con il mio vero nome, non ho avuto problemi in seguito a proporre libri che fossero molto diversi gli uni dagli altri, sia a livello di target sia a livello di genere. Perché sì, se la più grande qualità di un artista è quella di reinventarsi, al contempo è una lama a doppio taglio. Quando pubblicai Gothica sapevo che mi rivolgevo a un pubblico nuovo, e chi aveva amato Estasia o Prodigium forse sarebbe stato deluso. E così è stato, anche se in realtà poi ho “conosciuto” un’altra fetta di lettori. Ancor più con il libro Mad for Madonna, dove cambiavo totalmente genere, rivolgendomi anche a chi amava poco la lettura ma avrebbe comprato il libro solo per aggiungere un cimelio nella collezione madonnara.

Poi. C’è chi dice che molti si tengono stretto il nome per puro narcisismo. In pochi, esclusi i deficienti, credono nella scrittura come fonte di reddito o mezzo per diventare ricchi. Ecco perché nel mio precedente post parlavo di Troisi ed effetto velina. Perché il successo di Licia ha dimostrato che la fama è raggiungibile anche se non siamo attori di Hollywood, madre natura non ci ha dotato di una voce stupenda, ma siamo semplicemente “il vicino della porta accanto che diventa famoso”. Persone normalissime che hanno successo, certo, come se questa fosse la cosa più semplice del mondo, un meccanismo ovvio e oliato. Manco per sogno, ovviamente. Rimanendo nell’esempio, la Mondadori non ha più ripetuto quel successo, semplicemente perché non esiste la ricetta. E, spesso e volentieri, neppure con l’import di prodotti stranieri, che hanno venduto meno degli italiani.

Inoltre ci sono coloro che sono costretti a utilizzare uno pseudonimo perché non possono esporsi, magari per la professione che svolgono. E li capisco, spesso uno pseudonimo sarebbe servito anche a me, avrei evitato situazioni imbarazzanti. D’altronde, con gli anni, ho imparato a fregarmene. Dicerie, commenti, allusioni. E critiche feroci su internet, quella che chiamano ironia ma che spesso sfocia nell’offesa e vilipendio. Perché? Sapete, ho perso il conto delle volte che mi hanno dato per “morto” editorialmente parlando. “Fra un anno sarai scomparso”, oppure i mille complotti che stanno dietro al mio cambio di genere ed editore. La realtà è molto più semplice: ho pubblicato 9 libri, a ogni uscita i miei lettori raddoppiano, a fine anno pubblico con il più grande editore per ragazzi in Italia, Piemme. Id est.

Poi, oltre a questo c’è l’esagerazione dell’estremismo. Leggetevi questo articolo, perché è triste.