Finisce l’era Dexter

Dexter è stata una delle serie TV che ho seguito con più entusiasmo negli ultimi anni. Il protagonista era semplicemente magnetico: la sua natura, così folle eppure coerente, mi aveva rapito fin dalle prime puntate. Dexter e l’Angelo Oscuro, il dramma vissuto da bambino, l’assoluta necessità di uccidere ma solo persone malvagie. Il serial killer dei serial killer, come l’hanno definito. Ed era impossibile non innamorarsi anche di Debra, la sorella, solo per il fatto che non riusciva a comporre una frase senza infilarci un “fuck”.

Poi Dexter si è un po’ sfilacciato con le stagioni successive. Forse  fino alla quarta ha retto, poi è andato calando. Era ovvio, la serie TV si basava sulla potenza di un protagonista che a lungo andare diventava ripetitivo e monotono.

L’ottava stagione, l’ultima, è stata terribile. Totalmente inutile, con una sceneggiatura pietosa. Anche il rapporto morboso con Debra, la scoperta della vera natura del fratello, alla fine si sono rivelati solo dei bluff per allungare una serie di successo. E portarla, come è accaduto con l’ultima puntata, al totale disastro.

Niente di nuovo. Ormai si deve gridare al miracolo se una serie TV, prolungata all’infinito, si conclude in modo degno. Basti pensare a Lost, ma anche a Merlin. Il primo per l’incapacità di ricongiungere tutte le fila, il secondo per una conclusione affrettata. La fine di Dexter, invece, è totalmente un no-sense. Non vi darò spoiler, promesso, ma vi dico solo che nelle scene – teoricamente – di maggiore pathos io ridevo. Perché era una sceneggiatura priva di senso. Forse lo scopo era stupire lo spettatore, tanto ormai si era giunti alla fine e non c’era nulla da perdere.

Peccato, perché Dexter, per otto lunghi anni, mi ha tenuto compagnia e mi aveva entusiasmato

Cinema e pirateria

Stamani leggevo questo articolo su Repubblica. Dopo l’industria discografica (e  preso quella editoriale) si punta il dito contro la pirateria per giustificare la crisi del mercato cinematografico.

Non sono d’accordo. I temi vanno distinti, come ho già fatto più volte in passato. La musica è stata affossata in primis dalle stesse case discografiche, che non hanno saputo adattarsi all’era digitale. Pagare un CD 20 euro o scaricarlo gratis dalla rete, questa era la scelta. Una scelta ovvia, e il risultato lo conosciamo tutti. La chiusura dei negozi di dischi, le industrie discografiche in crisi – che sempre più puntano alle stelle comete alla X-Factor o agli artisti baracconi – i cantanti che ormai sopravvivono con i live e che si impegnano sempre meno nel produrre buona musica. Ma era un passaggio naturale – arginato in parte grazie a iTunes –  perché quando ci infiliamo le cuffie, ce ne freghiamo se la musica proviene da un CD, da un mp3 legale o pirata. La differenza è minima, nulla in pratica.

Sto generalizzando, è ovvio, lascio da parte i puristi del sound e gli appassionati.

Per il cinema la situazione è diversa. E’ vero, internet ha affossato i negozi di noleggio DVD e ha sancito la chiusura di colossi come Blockbuster. Il motivo è sempre il solito. Perché pagare 8-10 euro quando posso scaricare un film gratis? Unico neo, scaricare un film ha qualche problema in più rispetto a un mp3. Si deve avere una buona banda – e in Italia non è un concetto scontato -, spesso in rete si trovano film di una qualità pessima (specie se rip da cinema). Infine, in molti hanno una bella e costosa TV HD, 3D con un super impianto Dolby e Blu Ray, quindi i film pirata vanno a quel paese per un buon 90%. Google e Apple sono già sul piede di guerra per fornire film in streaming, ma la strada è ancora lunga.

Cinema. Non credo che la pirateria sia il motivo della chiusura delle sale. I film appena usciti si trovano in rete, è vero, ma per lo più con una qualità talmente scadente che si perde il gusto della visione. Il problema è sempre il solito: il costo. L’ultima invenzione delle industrie cinematografiche per “invogliare” le persone ad andare al cinema è stata quella del 3D, iSense e compagnia varia. Spesso senza lasciarti libertà di scelta: il film è solo 3D. Risultato? Un biglietto gonfiato a circa 11-12 euro. Più 1 euro per i fantastici occhialini 3D. Per un film che magari viveva benissimo – o meglio – senza il 3D. Aggiungici magari una pizza, popcorn e coca cola a prezzi triplicati, e hai speso 30-40 euro per la serata. E allora magari si rinuncia, se non siamo così convinti del film. Si aspetta che esca il DVD, o la versione pirata di buona qualità.

Non è la pirateria che affossa il cinema. Sono i prezzi.

E per l’editoria, sarà la stessa cosa, prima o poi?

L’insoddisfazione segue l’ambizione come un’ombra

Seppur cosciente di una definizione limitativa, Jung la definiva sincronicità. E’ lo scontrarsi di eventi del tutto acasuali, la moderna derivazione della matrice greca del destino.

Eppure, nessuno di noi ci crede veramente. Stringiamo i denti, ci affidiamo alla fede nello sconforto, ma siamo tutti convinti del nostro libero arbitrio. Convinti che possiamo costruire il nostro futuro, giorno dopo giorno. Perché dovremmo essere insoddisfatti, perché inventarci un nuovo dramma, solo per camminare, ora dopo ora, se tutto fosse già scritto? Scritto come un alone.

Ci riflettevo proprio oggi. Nella sincronicità fisica di una strada di Roma dove è nato il dramma di un personaggio del mio ultimo libro.

Chi sono, adesso? Un granello di polline trasportato dal vento nel deserto, alla ricerca di un’oasi dove posarsi. Un’oasi che credevo di aver trovato, senza accorgermi che tutto attorno a me stava già appassendo.

E’ quell’insoddisfazione perenne che non ti fa godere appieno nell’aver raggiunto un obiettivo, perché pensi subito a come inseguire quello successivo. Una corsa continua che non ti toglie mai il fiato. E’ la ricerca della nostra Bella Epoque, come in Midnight Paris, la volontà di costruire qualcosa ci trasforma in moderni eroi schilleriani. Poi, inevitabilmente, si finisce imprigionati nelle Notti bianche. Infinite. Dolorose. E ci perdiamo. In quel buio più scuro che precede l’alba.

E’ forse questo il problema. Il volersi sentire vivi e strappare ogni secondo della nostra vita come fosse l’ultimo. Siamo terrorizzati di finire congelati nella Melancolia di Dürer. Temiamo di invecchiare. Di morire senza aver vissuto. Di restare soli. Combattiamo contro il tempo, che si squaglia come nella Persistenza della Memoria.

Non dobbiamo accontentarci. L’ambizione è il nostro motore vitale. Ma l’insoddisfazione la sua ombra.

Fa parte del gioco.

Oppure, come direbbe qualcuno in modo più vero, dobbiamo innamorarci del giocatore e non del gioco.

Dead flowers

Non ho mai avuto un bellissimo rapporto con i fiori.

Da piccolo ero innamorato dei crisantemi, fino a quando non mi hanno fatto notare che erano associati ai morti e al cimitero. Tuttavia continuo a pensare che il crisantemo sia il fior pù bello in assoluto.

Non li amo, è vero. Eppure spesso finiscono nei miei libri. E nei miei romanzi, volente o nolente, c’è sempre qualcosa di me. Inconscio o subconscio non ha importanza.

Il fiore è la gioia di una pianta, che esprime la sua vita. L’apice di una parabola di rinascita.

Il fiore, come regalo, è invece qualcosa di spezzato, tagliato dalla radice, destinato a morire nel breve periodo.

Detesto l’associazione di un fiore a un particolare significato. Odio, soprattutto, il concetto insito. Perché donare un fiore implica quasi sempre una motivazione.

Promessa, dichiarazione, perdono, ricordo, condoglianze, congratulazioni.

Un fiore è un’emozione, un sentimento, un gesto. Sostituisce le parole. E’ costretto a comunicare qualcosa.

Ma è anche destinato a morire.

Giorno dopo giorno, il fiore appassisce e si trasforma in una nuova metafora. La morte lenta e inesorabile di un gesto, di una parola, di un’emozione. Di un momento, di un ricordo. E’ un processo irreversibile di invecchiamento e scomparsa.

Sembra un controsenso, eppure amo i fiori appassiti e secchi. E’ come se dopo una lenta agonia avessero raggiunto l’immortalità di un significato. Le foglie secche, fragili e immobili. La corolla scolpita.

Il fiore si trasforma in una scultura. E’ il congelamento eterno di un sentimento. Qualcosa che va al di là della vita e della morte stessa.

Andrebbero regalati solo fiori morti.

Per questo adoro le rose nere, ma solo appassite.

Il Sanremo sempre più trash

Ho seguito Sanremo solo perché esiste Twitter. Cercare l’#tag Sanremo, leggere i tweet degli utenti “live” durente le varie esibizioni è esilarante.

Una corsa al massacro. Il divertimento trash di prendere in giro una trasmissione che forse non ha più senso di esistere. il comune divertirsi in una distruzione di massa.

E potrebbe essere questa la conclusione, in effetti, se davvero Sanremo non meritasse il linciaggio. Una trasmissione che succhia una bella fetta del canone RAI, tassa teoricamente obbligatoria. Noi cittadini italiani, in pratica, siamo obbligati a pagare per Sanremo. Per quattro ore x quattro giorni di vera spazzatura e di canzoni mediocri. Perché, ovviamente, Sanremo non è più il festival della canzone.

Mercoledì è diventato SanCelentano, con un risultato pessimo e di cattivo gusto, atto solo a fare audience e innescare le polemiche che domani nessuno ricorderà più. Morandi impacciato, i Soliti Idioti che ci fanno sprofondare nel baratro dell’imbarazzante, con gag da sbadiglio, riproponendo il cliché della coppietta gay anni ’70, con tanto di bacio al conduttore. E poi, sempre per rimanere nel pornosoft anni ’70, un bel tatuaggio di Belen. Perché le mutante sono #missing, come diceva un #tag di twitter.

Già, dovrebbero esserci anche le canzoni. Ma non credo che nessuno le ricordi.

C’era chi dormiva, chi guardava il tatuaggio di Belen. Chi era già al bagno.

Ciao, Whitney

Non sono mai stato un fan sfegatato di Whitney Houston, ma rimasi subito impressionato dalla sua voce. Da quel “All at once” a Sanremo, non so di quanti anni fa, che riuscì a far alzare tutta la platea in una lunga standing ovation. Perché Whitney aveva una voce splendida, insuperabile.

In seguito, le sue canzoni hanno accompagnato tutta la mia adolescenza. Le scuole medie, le superiori. Come posso scordare The Bodyguard e “I will always love you”? Canzoni che hanno segnato un’era, la storia della musica. Dei cult intramontabili. Pezzi della mia vita. Della vostra.

Quando ho saputo della sua morte, la prima sensazione è stata di dispiacere. Subito dopo, di rabbia. Perché, e me lo domando ogni giorno, una donna come lei, che ha ricevuto un dono così bello e prezioso, unico al mondo, deve fare questa fine? Non ci sono spiegazioni. Aveva tutto: denaro, fama, successo. Eppure tutto le è crollato addosso. Un matrimonio sbagliato, la felicità che non si compra mai con i soldi. I soliti luoghi comuni, è vero, che però diventano così concreti e veri in questi momenti.

In tutta onestà non riesco a perdonare dei simili errori. Non è tutto così scontato e ovvio: ci sono artisti – come Madonna – che pur vivendo nel lusso e nell’esagerazione di una vita sempre al top, hanno deciso di stare lontano dalla droga. Semplice dirlo, meno farlo. Semplice immaginarlo, ancor meno capire la complessità delle situazioni personali, che noi leggiamo filtrate dai gossip e dai media.

Ma, qualsiasi sia il motivo, resta il fatto che Whitney ha deciso la sua distruzione. L’ha scritta, l’ha voluta. E questo è un grande peccato. Un errore che non si può perdonare solo perché è finita male, in un momento di cordoglio di massa. Ma lasciamo stare queste considerazioni, che sono personali e non possono essere condivise.

Rimane l’amarezza. E, per sempre, rimarrà la sua voce splendida.

Frozen

Ok, non sono un amante del freddo.

Ok, preferisco un bagno di sabbia equatoriale alla neve. Ma son gusti, si sa.

La neve a Roma (un evento così raro che ormai capita ogni anno) è sempre uno spettacolo stupendo.

O almeno lo sarebbe stato, se Roma fosse una città pronta a eventi di questo tipo. Se ci desse la possibilità di vivere con gioia la città eterna imbiancata.

Ma non è così. Venerdì sono uscito a lavoro alle 16. Alle 16.30, a San Giovanni, ho capito che la città era nel caos completo e che non sarei mai riuscito a tornare a casa in moto. Dopo averla lasciata in un parcheggio a Termini, è iniziata l’agonia per raggiungere Roma Est. Le strade erano congestionate, incidenti ovunque bloccavano la viabilità, la neve continuava a scendere. L’unica via di salvezza sarebbero stati i treni, che però erano stati soppressi senza troppe spiegazioni.

Morale della favola: arrivato a casa alle 20.30, per un totale di 4 ore e mezzo.

Chi di voi mi ha seguito su Facebook o Twitter conosce l’odissea. Come me, tantissimi altri romani.

E poi, polemiche a non finire. Il sindaco. La protezione civile. Il sale che non è stato sparso. I mezzi che non c’erano. I soccorsi insufficienti. Una città che si piegata come un ramoscello. Un’alluvione o una nevicata non fa differenza. Roma vive sul filo di un equilibrio precario. Basta poco per trasformare un imprevisto nel delirio.

E adesso si rinizia la settimana, mentre il ghiaccio pian piano si scioglie e tutto torna alla normalità.

Vi lascio infine l’esibizione di Madonna al Super Bowl. Come qualcuno ha definito su Facebook, non c’è altro aggettivo più adatto. Faraonica.

httpvh://www.youtube.com/watch?v=PyfdoZldrS4